Parte I
Fiumi di volti scorrono fluidi di fronte agli
occhi, cambiano forma rumorosamente ma ordinati ed in fila. Il colore si
bilancia con trame discontinue ma cangianti, scivolano fra il chiaro e lo scuro
senza mai definirsi nettamente. Guardali evolversi nei viottoli e negli
stradoni, perdono consistenza e la recuperano, impetuosamente scrosciano
all’impatto con i muri, arcaiche prigioni per il pensiero civilmente
riconosciuto.
Celle e braccia organizzate per tenerti libero a
fluttuare in questo mare, dentro un mondo divenuto altare, ipocrita specchietto
di ogni news al cellulare. Civiltà. Quell’ammasso di letame dentro al quale poi
cerchiamo stabilità, effimera speranza l’illogica tendenza a veder quel che non
e’ dove non c’e’! come fai a vedere libero quest’animale in gabbia. Come fai a
non sentire il sole se sei in mezzo alla spiaggia?
Vivi nel bel mezzo della notte , è li che sta la
fregatura, affannato alla ricerca non senti che paura. Cosi’ fra schemi e
tabelle d’analisi, fra corsi e classi di yoga l’invisibile e’ palpabile,
sublimazione materiale, proietta immagini, speranze, attriti.Stampa libri e
testi sacri con l’intento di dar forma al liquido che scorre, magari fermarlo
per le folle.
E ancora scorre, scorre a tutte le ore, insensibile
non fa altro che sbraitare, si sente arrivare ovunque, magari non arriva o
forse sta già qui, il suono rimbomba dapperttutto e le urla che primeggiano
bestemmiano, senza la voglia, ma si capisce, come cosa autogena inietta
piacere, liberazione.
Nel fondo si sghignazza, son gli spiritati, la
parte superficiale incurante del male. Ride a crepapelle vedendosi in aria fra
le stelle. Tra due bestemmie, due spari e gli sputi, chi si sente deriso
e chi si autocommisera, chi ride e chi si impegna, chi vende tenerezza a questo
fiume di amarezza e chi spara sulla folla ogni volta sorride e poi a
molla crolla. La massa liquida procede a scaglioni e risale strisciando a terra
gli scarponi, immortalata da fotografie che mostrano l’esterno, brillano
conservando immobile il segno di quel momento. Ci parlano di volti, di smorfie
e lingue viscide, ma il tedio che brucia non possono descriverlo mentre le luci
a grandine non fanno che strillare rubano il contrasto giusto a quegli
autoscatti di dubbio gusto.
Osservane il riflesso da vicino, non cercare
l’esterno, notane la forma ed i contorni, non conta il colore, ne la
dimensione, cerca soltanto la luce dell’azione. Residui di nervi segnano il
percorso, la strada maestra, coordinate anche per gestire la mano destra. Passo
dopo passo si avanza verso il nuovo, si ricerca il compromesso per ottenere il
permesso, si ricerca quel punto d’incontro che possa dare inizio al fresco,
all’inatteso, impensato, insospettato, che puntualmente s’allontana lasciando
indietro il popolo perplesso, raggirato. Son volti seri quelli intorno, viottoli
e stradine, intrecci, scappatoie e ferri corti .
Si ricerca l’assonanza per ogni stanza, la stessa
composizione crea una forma di vibrazione che suonata con costanza può generare
risonanza e collegarci alla vera forma di sostanza. Una primizia, quella forza
che ti addrizza e molto spesso ti indirizza, erotica coscienza, interna
attrazione , è un eterna dannazione l’intesa di un’amicizia. Quindi alzare
dighe in barba ai fiumi. Canalizzare ogni affluente. Indirizzare bene il corso
degli eventi, valutare debiti e compensi calcolando quanto basta il fiato che
ci vuole per spazzare via ogni scompenso, calcolare quanto basta il fiato che
ci vuole a chiaccherare lasciando indietro tutto il resto. Limare ogni minima
imperfezione o differenza, sterilizzare tutto.
Continua e sfugge nei castelli buttati giù da una
versione un po più veritiera, castelli alzati fra sillogismi automatici,
autogenerati, sospetti o solo aspetti che rimandano ad eventi e ritornano
indietro minacciando guerra. E sopra i ruderi neri e desolati resta soltanto la
leggenda, dentro ai ricordi di quelle rovine un tempio di religioni sconosciute
e terre abbandonate.
Non esiste dignità, non ricordo somiglianza, ogni
faccia ogni pensiero non raccontava il vero, sembrava come fosse un eterno
ripetersi e raccortarsi di menzogne, fanfaronate, eventi inventati, gesti
sopravvalutati, che alterano il reale non attingono al normale dando su quella
patina teatrale, anormale, un azione forzata a provarla reale.
Protagonisti e comparse godono al pensiero di
entrare in corsa e magari a suon di trombe per la lotta e le mazzate dei
cantastorie e falsi eroi che si esibiran per noi a mostrar l’ardore di questo
fiume d’odio. Odio e amore fra le fila ma attenendoci all’odore non resta alcun
decoro, non si sente quel profumo di sana dignità dove un semplice gesto non è
altro che se stesso, niente di complesso.
Molto spesso alla visione di questi accadimenti non
possiamo che essere contenti di non aver certi scompensi, ma alle volte, al
contrario, si hanno troppi sentimenti di crear fraintendimenti anche se
cambiandone gli addendi il risultato resta uguale, paradossale.
Poi ritorna a vampate quell’odore, quel rancore,
conservato per millenni, crolla per momenti e risorge lentamente attraendoti
dal ventre, quella lunga consuetudine e pratica di cose ricorrenti e familiari,
raccontate da ricordi nebulosi di sventure, non sinistre traversie, solo umane
peripezie, naturalmente finite seguendo il corso stomacoso degli eventi.
Piove acqua sporca e insudicia le strade, infetta
il flusso poliedrico, s’insinua a piccole goccie, e defluisce in una voce, che
tremola e tentenna. Una voce roca e stanca che se riscaldata appena torna ad
essere ridente, ma quando il sibilo sobrio sovrasta il silenzio s’accascia
sotto la pioggia e maschera il suo mento.